Tutte le tradizioni sembrano sia state travolte da un progresso che molto ci ha dato e molto ci ha tolto e che comunque sembra aver spazzato via definitivamente l’antico modo di vivere

GUBBIO – E quando a notte inoltrata, tornavo a casa, della loro presenza non rimanevano che varie testimonianze, le sedie sparse qua e là, il sapore gradevole del caffè, le cicche delle sigarette nel portacenere, e poi sul tavolo l’immancabile stock 84, la bottiglia di mistrà, amaretto di Saronno, vino ecc. La mamma avrebbe sistemato la mattina dopo.

Era cosi tutti gli anni, alla vigilia dell’apertura dell’anno venatorio, (che avveniva immancabilmente l’ultima domenica di agosto) questa squadra di cacciatori, dediti esclusivamente alla caccia del lepre, composta dai fratelli Gnagni Emilio e Dario (de Riccio) i cugini Elio (quello del distributore) e Marino Clementi (de Tillino) come sempre la sera precedente all’apertura, si ritrovava a casa di mio padre, Fiorucci Nello (del Falco), non ho mai compreso il motivo di queste riunioni, forse per organizzare nei dettagli la giornata seguente o magari per ricordare le passate annate di caccia, oppure per una semplice chiacchierata, per smorzare la tensione della vigilia dell’apertura.

Poi, quando salivo le scale per andare a dormire, mio padre dalla sua camera da letto spesso mi chiedeva: “Massimo che ora è?” “Babo le due, dorme che è presto” (Ai tempi della nostra giovinezza, gli anni 70/80, alle due del sabato si andava a letto non a ballare come ora, penso che era meglio allora).

Ma in effetti non credo che alla vigilia dell’apertura mio padre abbia mai dormito, perché il tempo di addormentarmi e il rumore dei suoi passi, in cucina, nel corridoio, scuotendo casa mi svegliava, lo sentivo, mio padre, girare per casa quasi un’ora, senza mai capire cosa facesse, d’altronde aveva sistemato tutto la sera prima infatti sul tavolo c’era il cosiddetto tascapane con dentro bottiglia di vino (in vetro), panini con prosciutto e salame de casa, armamentario, guinzagli per i cani ecc.

Poi intorno alle ore 4 all’improvviso l’abbaiare dei cani, mi svegliava di nuovo, e segnalava l’arrivo a casa degli altri cacciatori, i quali va ricordato arrivavano a casa con i mezzi di trasporto del tempo, che erano piuttosto comuni, non si vedevano in giro ancora Jeep, fuoristrada, Suv, macchine furgonate e accessoriate con gabbie per sistemare gli animali.

Al tempo si viaggiava con le vecchie 500, Pande, furgoni ecc. ricordo che i cani circa 5 o 6 venivano caricati nel bagagliaio chiuso della Fiat 124 di mio padre o nella Citroen di Gnagni Dario o nel maggiolone Volskwagen (che aveva il cofano davanti) del suo compagno di caccia Elio Clementi e via per circa 20/25 Km di strada, fino alla meta prevista. Credo che oggi situazioni come queste con i cani in bagaglio chiuso, siano improponibili.

L’apertura della caccia, ai tempi che sto testimoniando, aveva qualcosa di particolare, di unico, non era un giorno di caccia qualunque, era una giornata speciale, la prima dell’anno venatorio, era un vero e proprio rito che si ripeteva annualmente da decenni, o forse più.

Ricordo perfettamente che il risultato venatorio interessava in particolar modo non solo i cacciatori, ma anche i vicini di casa, i parenti, gli amici, insomma gente comune che non andava a caccia ma chiedeva puntualmente a mio padre o a tanti altri cacciatori: “Com’è andata Nello l’apertura quest’anno?“. Tanto per fare un paragone calcistico si potrebbe dire che l’apertura della caccia era come una finale di Coppa Campioni, (ahimè sono juventino) e il restante anno venatorio come il Campionato Italiano di calcio.

Ci sono ricordi, di quel periodo lontano, che mi sono rimasti indelebili nella mente pur avendoli vissuti da bambino, come quando vedevo arrivare a casa un giovane e oggi compianto cacciatore, Domenico Berettini (Menco) il quale arrivava con la Vespa, caricava mio padre e due cani, sistemati uno tra i due passeggeri e l’altro davanti il guidatore e li vedevo ripartire con i fucili a spalla e canne all’aria, oppure quando mio padre partiva da casa, con la bicicletta, fucile in spalla e cane legato al guinzaglio, e via a caccia nella zona dell’acqua sulfurea (solfa) tra Ferratelle e Fornaci.

Ai tempi dell’apertura non era raro vedere cacciatori aggirarsi o camminare lungo le strade anche in città, con il fucile a spalla, tali situazione al giorno d’oggi farebbero pensare a un film anni ’50 sulla mafia, o sull’antico mondo agricolo e contadino e comunque chi oggi si avventuri per le vie con un fucile in spalla verrebbe arrestato dopo pochi minuti.

Altri tempi si dirà, certo ma oggi mi sembra (è un solo un mio pensiero) che, tutte le tradizioni (non solo la caccia) sembrano sia state travolte da un progresso che molto ci ha dato e molto ci ha tolto e che comunque sembra aver spazzato via definitivamente l’antico modo di vivere, e anche il modo di cacciare si è dovuto o ha voluto adeguarsi a queste nuove regole.

D’altronde chi si immaginava trent’anni fa che la caccia al cinghiale sarebbe diventata nel nostro territorio, la prima per importanza e dedizione rispetto alle altre, considerato che questi animali, a differenza di lepri, starne, quaglie, fagiani ecc, non hanno mai fatto parte dell’habitat naturale delle nostre campagne e montagne, ma che oggi hanno invaso i nostri territori, devastando i terreni coltivati, e rendendo complicato anche il rapporto con gli agricoltori.

Rimango dell’idea che mio padre, i suoi amici, i cacciatori di quel tempo abbiano vissuto quella stagione venatoria in modo piacevole e per certi versi irripetibile con grande passione (e le passioni si sa qualsiasi esse siano riempiono la vita) nel rispetto delle regole e della natura e io come figlio non cacciatore ho voluto ricordare questo momento con piacere e soprattutto con un velo di malinconia, nel ricordo di un tempo che non tornerà più.

A mio padre e ai suoi amici cacciatori

Massimo